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Fausto Coppi


cunego..

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Fausto Coppi

Alle 8.45, sei rantoli sordi e poi il nulla. Come un filo di lana si spezza con un lieve soffio di vento, se ne andava quella vita che aveva portato leggera l'orgoglio d'un popolo, fino a raggiungere lassù, dove le aquile depongono le uova e guardano i burroni, la lunga mano che l'aveva immortalato padrone d'un originale teismo. Era il 2 gennaio 1960, i primi respiri degli anni dei sogni chiudevano le ali all'autore di milioni di voli, oltre i ricordi ancor freschi, degli orrori della stupidità umana.

Giovannino, che per lui avrebbe donato quanto di più caro gli stava vicino, si sentì percorrere da un'invisibile lama che richiamò un soffocante dolore: quell'amico, il suo dio se ne era andato e non era nemmeno riuscito a salutarlo. Un fiotto di lacrime improvvise e pure aspettate, bagnarono le sue guance, mentre il suo petto gonfiandosi s'incontrò con un dolore ancor più inusitato. Giovannino si piegò sul letto dello spirato amico scoppiando a piangere e Giuseppe, che dalla stanza s'era per qualche attimo allontanato, rientrando, capì quanto l'irreparabile lungamente pensato nelle ore precedenti, fosse arrivato a portare quelle vestigia che mai nessuno vorrebbe.

Quei rantoli erano stati l'ultimo messaggio terreno di Fausto Coppi, l'uomo che più di ogni altro è tutt'oggi presente, magari in un angolo come un penate, in ogni famiglia italiana. Giovannino era l'amico fraterno del campione, un fratello acquisito come se Coppi stesso se lo fosse costruito con le sue mani. Giuseppe era quello zio che, come tanti di quel grado di parentela, aveva svolto a segmento i tratti del padre e del fratello maggiore. Furono loro gli ultimi a vedere quel che restava dell'airone, ed i primi a capire che il suo volo terreno aveva lasciato completamente spazio a quello del mito immortale. Le 8.45 segnarono un tempo d'orologio ed un semplice quanto struggente cambio di consegne fra l'uomo e il messaggero voluto dal creatore o dal destino, affinché avesse portato al genere umano il perenne ricordo d'una scultura indelebile, d'un vento che soffia e ci avvolge tutti senza sentire che c'è. Era spirato un uomo reso pallido e sudato da una febbre intensa, come intenso era stato il solco che aveva scavato nelle menti fino a raggiungere il permeante. L'orario era solo il tenue punto per far posto al racconto e alla leggenda eletta depositaria del chiarore d'irraggiungibile.

Fausto Coppi è stato tutto questo, un uomo che anche nella morte ha impreziosito le penne e tolto ulteriori lacrime ai tanti pianti di quelle genti di allora. Era stato troppo divino per morire senza ricami e troppo importante e breve per non lasciare un inalienabile rammarico e forse proprio perché lo si sentiva immortale, mai nessuno ha voluto accettare quella morte. D'altronde morire a soli quarant'anni, non per incidente o infarto, o tumore, ma per una malattia già allora curabilissima, lascia effettivamente perplessi, eppure una spiegazione ed una verità ci stanno anche se crude e dure da considerare come possibili.

Fausto Coppi morì di malaria, aldilà dei dubbi che qualcuno sollevò qualche anno fa. A confermarlo, inequivocabilmente, quel bacillo che fu isolato e dimostrato nei vetrini. Quel che è duro accettare, ed è il motivo sul quale ancora oggi e per sempre rimarrà perenne rammarico, è come dei medici, alcuni pure famosi, non siano stati capaci di capire nei tempi utili quella malaria. Coppi l'aveva già avuta durante la guerra, quando era sul fronte africano e lì, privi di macchinari e grandi dottori, gliela curarono col chinino senza soverchi problemi.

Fausto tornò il 18 dicembre dall'Alto Volta, dove aveva corso un criterium per festeggiare il primo anniversario dell'indipendenza di quel paese africano. Assieme a lui tanti altri campioni come Anquetil, Riviere, Anglade, Geminiani. Fu proprio Raphael, verace romagnolo trapiantato in Francia, che di Coppi era amicissimo, a dormire con lui nel misero albergo dove alloggiarono nei giorni di permanenza in quello stato.

"Fummo presi d'assalto dai Moustiques - dirà Geminiani - i letti non avevano le zanzariere. Fummo martoriati. Appena dopo Natale ci telefonammo. Fausto voleva gli combinassi una squadra di corridori francesi per la sua bici, la bici Coppi. Gli dissi che stavo male, che avevo una strana febbre. Mi rispose che anche lui si sentiva addosso l'influenza e che si sarebbe messo a letto".

La sera del 27 dicembre Fausto Coppi, esausto e giallo come un limone, si infilò sotto le coperte: aveva 40 di febbre. Chiamarono Ettore Allegri, il suo medico. Diagnosi: influenza asiatica. Antibiotici. In Francia Raphael Geminiani andò in coma. Il suo sangue fu portato all'Istituto Pasteur. Responso: malaria perniciosa plasmodium falciparum. Lo bombardarono col chinino e lo salvarono. La moglie di Raphael allora telefonò a Villa Carla (casa Coppi) e disse che il marito aveva la malaria e che anche Fausto, nel frattempo fortemente peggiorato, era sicuramente malato della stessa. Un medico le disse che non si impicciasse e che Coppi l'avrebbero curato loro.

Ed infatti al capezzale del Campionissimo arrivarono diversi dottori che formularono un'altra diagnosi: broncopolmonite emorragica da virus. Agli antibiotici venne aggiunto il cortisone che per la malaria era come concime. Il fratello di Geminiani telefonò per sincerarsi delle condizioni di Fausto e ribadì di andare dritti sul chinino. Niente da fare, i medici non ne volevano sapere. Coppi era già morto il 31 dicembre, anche il chinino, sul suo fisico bombardato di antibiotici e cortisone, non avrebbe potuto evitargli la morte. Il primo gennaio i medici si decisero a ricoverarlo in ospedale. Arrivarono i barellieri e Fausto, raccogliendo le ultime forze, quasi a presagire la morte imminente, volle per la prima volta che il figlio Faustino lo vedesse in quello stato. Lo chiamò vicino alla barella e gli disse: "Fai il bravo, Papo!".

Fausto Coppi fu ricoverato a Tortona dove nel frattempo erano arrivati gli esiti degli esami: era malaria.

Troppo tardi per evitare che l'Airone chiudesse per sempre le ali. Il due gennaio 1960, alle 8,45, il suo volo solitario, in mezzo alle nebbie e alla polvere, sullo sfondo della sua leggenda, iniziò una nuova dimensione nei cuori e nelle menti. Oggi, a 49 anni di distanza da quel giorno, sentiamo con immutata intensità l'immortalità del suo mito.

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Fausto Coppi

Alle 8.45, sei rantoli sordi e poi il nulla. Come un filo di lana si spezza con un lieve soffio di vento, se ne andava quella vita che aveva portato leggera l'orgoglio d'un popolo, fino a raggiungere lassù, dove le aquile depongono le uova e guardano i burroni, la lunga mano che l'aveva immortalato padrone d'un originale teismo. Era il 2 gennaio 1960, i primi respiri degli anni dei sogni chiudevano le ali all'autore di milioni di voli, oltre i ricordi ancor freschi, degli orrori della stupidità umana.

Giovannino, che per lui avrebbe donato quanto di più caro gli stava vicino, si sentì percorrere da un'invisibile lama che richiamò un soffocante dolore: quell'amico, il suo dio se ne era andato e non era nemmeno riuscito a salutarlo. Un fiotto di lacrime improvvise e pure aspettate, bagnarono le sue guance, mentre il suo petto gonfiandosi s'incontrò con un dolore ancor più inusitato. Giovannino si piegò sul letto dello spirato amico scoppiando a piangere e Giuseppe, che dalla stanza s'era per qualche attimo allontanato, rientrando, capì quanto l'irreparabile lungamente pensato nelle ore precedenti, fosse arrivato a portare quelle vestigia che mai nessuno vorrebbe.

Quei rantoli erano stati l'ultimo messaggio terreno di Fausto Coppi, l'uomo che più di ogni altro è tutt'oggi presente, magari in un angolo come un penate, in ogni famiglia italiana. Giovannino era l'amico fraterno del campione, un fratello acquisito come se Coppi stesso se lo fosse costruito con le sue mani. Giuseppe era quello zio che, come tanti di quel grado di parentela, aveva svolto a segmento i tratti del padre e del fratello maggiore. Furono loro gli ultimi a vedere quel che restava dell'airone, ed i primi a capire che il suo volo terreno aveva lasciato completamente spazio a quello del mito immortale. Le 8.45 segnarono un tempo d'orologio ed un semplice quanto struggente cambio di consegne fra l'uomo e il messaggero voluto dal creatore o dal destino, affinché avesse portato al genere umano il perenne ricordo d'una scultura indelebile, d'un vento che soffia e ci avvolge tutti senza sentire che c'è. Era spirato un uomo reso pallido e sudato da una febbre intensa, come intenso era stato il solco che aveva scavato nelle menti fino a raggiungere il permeante. L'orario era solo il tenue punto per far posto al racconto e alla leggenda eletta depositaria del chiarore d'irraggiungibile.

Fausto Coppi è stato tutto questo, un uomo che anche nella morte ha impreziosito le penne e tolto ulteriori lacrime ai tanti pianti di quelle genti di allora. Era stato troppo divino per morire senza ricami e troppo importante e breve per non lasciare un inalienabile rammarico e forse proprio perché lo si sentiva immortale, mai nessuno ha voluto accettare quella morte. D'altronde morire a soli quarant'anni, non per incidente o infarto, o tumore, ma per una malattia già allora curabilissima, lascia effettivamente perplessi, eppure una spiegazione ed una verità ci stanno anche se crude e dure da considerare come possibili.

Fausto Coppi morì di malaria, aldilà dei dubbi che qualcuno sollevò qualche anno fa. A confermarlo, inequivocabilmente, quel bacillo che fu isolato e dimostrato nei vetrini. Quel che è duro accettare, ed è il motivo sul quale ancora oggi e per sempre rimarrà perenne rammarico, è come dei medici, alcuni pure famosi, non siano stati capaci di capire nei tempi utili quella malaria. Coppi l'aveva già avuta durante la guerra, quando era sul fronte africano e lì, privi di macchinari e grandi dottori, gliela curarono col chinino senza soverchi problemi.

Fausto tornò il 18 dicembre dall'Alto Volta, dove aveva corso un criterium per festeggiare il primo anniversario dell'indipendenza di quel paese africano. Assieme a lui tanti altri campioni come Anquetil, Riviere, Anglade, Geminiani. Fu proprio Raphael, verace romagnolo trapiantato in Francia, che di Coppi era amicissimo, a dormire con lui nel misero albergo dove alloggiarono nei giorni di permanenza in quello stato.

"Fummo presi d'assalto dai Moustiques - dirà Geminiani - i letti non avevano le zanzariere. Fummo martoriati. Appena dopo Natale ci telefonammo. Fausto voleva gli combinassi una squadra di corridori francesi per la sua bici, la bici Coppi. Gli dissi che stavo male, che avevo una strana febbre. Mi rispose che anche lui si sentiva addosso l'influenza e che si sarebbe messo a letto".

La sera del 27 dicembre Fausto Coppi, esausto e giallo come un limone, si infilò sotto le coperte: aveva 40 di febbre. Chiamarono Ettore Allegri, il suo medico. Diagnosi: influenza asiatica. Antibiotici. In Francia Raphael Geminiani andò in coma. Il suo sangue fu portato all'Istituto Pasteur. Responso: malaria perniciosa plasmodium falciparum. Lo bombardarono col chinino e lo salvarono. La moglie di Raphael allora telefonò a Villa Carla (casa Coppi) e disse che il marito aveva la malaria e che anche Fausto, nel frattempo fortemente peggiorato, era sicuramente malato della stessa. Un medico le disse che non si impicciasse e che Coppi l'avrebbero curato loro.

Ed infatti al capezzale del Campionissimo arrivarono diversi dottori che formularono un'altra diagnosi: broncopolmonite emorragica da virus. Agli antibiotici venne aggiunto il cortisone che per la malaria era come concime. Il fratello di Geminiani telefonò per sincerarsi delle condizioni di Fausto e ribadì di andare dritti sul chinino. Niente da fare, i medici non ne volevano sapere. Coppi era già morto il 31 dicembre, anche il chinino, sul suo fisico bombardato di antibiotici e cortisone, non avrebbe potuto evitargli la morte. Il primo gennaio i medici si decisero a ricoverarlo in ospedale. Arrivarono i barellieri e Fausto, raccogliendo le ultime forze, quasi a presagire la morte imminente, volle per la prima volta che il figlio Faustino lo vedesse in quello stato. Lo chiamò vicino alla barella e gli disse: "Fai il bravo, Papo!".

Fausto Coppi fu ricoverato a Tortona dove nel frattempo erano arrivati gli esiti degli esami: era malaria.

Troppo tardi per evitare che l'Airone chiudesse per sempre le ali. Il due gennaio 1960, alle 8,45, il suo volo solitario, in mezzo alle nebbie e alla polvere, sullo sfondo della sua leggenda, iniziò una nuova dimensione nei cuori e nelle menti. Oggi, a 49 anni di distanza da quel giorno, sentiamo con immutata intensità l'immortalità del suo mito.

Favoloso, l'avevo già letto ma l'ho riletto tutto d'un fiato. Se non sbaglio dovrebbe averlo scritto Morris, un utente di cicloweb...

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a mio parere il più grande di sempre...un grande corridore e grande personaggio...

Ha avuto la sfortuna di trovarsi la guarra tra i suoi anni migliori altrimenti il suo palmares sarebbe stato unico anche meglio di merckx (da quel che ne so in quegli anni vinceva tutto).

bellissimo questo ricordo

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Ti stai confondendo con Bartali, è lui che si trovò il la guerra durante gli anni migliori... senza dubbi più grande di Coppi...

Straquoto Padrino...io sn dell'idea che Bartali avrebbe potuto fare meglio di Coppi, poi Gino è stato l'uomo più sfortunato al mondo per via di cadute e forture decisive......

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Beh ma anche Coppi in quegli anni avrebbe avuto 21-26 anni, età in cui poteva vincere molto. Ovviamente ad essere più penalizzato è stato Bartali (26-31), però certamente fu molto danneggiato anche l'Airone.

Bartali lo sfortunato e Coppi il fortunato, sono ricordati anche per questo

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io in questi casi simpatizzo sempre per il vecchio che con l'esperienza recupera quello che ha in meno nelle gambe, quindi Bartali, ma sicuramente anche Coppi è stato un grande campione.

E' vera quella storia che dicevano nella fiction su Bartali, cioè che i giornalisti lo distrassero mentre era in fuga perchè non volevano che vincesse un esordiente?

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bartali a vita :105:

Un uomo prima di essere un campione, al contrario di Coppi :wink:

:ave: Sante parole.....

Gino per sempre

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Coppi non sarebbe stato niente se non ci fosse stato Bartali.

Bartali non sarebbe stato niente se non ci fosse stato Coppi.

Per me il più forte di tutti Merckx, poi Pantani, poi Coppi e Bartali.

E qui non ti quoto perchè vero che Coppi non sarebbe stato niente senza Bartali, ma non puoi dire il contrario perchè Bartali era già affemato come ciclista e senza Coppi non avrebbe fatto altro che aumentare il suo numero di vittorie

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