D'arkness aveva da sempre viaggiato tanto, visitando luoghi poveri e spogli ma ogni volta che veniva da queste parti aveva un senso di impotenza. Vedere un paese, così vicino all'occidente sicuro e civile, ridotto in questo stato, con dei palazzi ancora sventrati dalle bombe e crivellati di colpi, come fossero mobili vecchi pieni di termiti.
Era arrivato qui da nemmeno un giorno e si sentiva già vacillare, lontano dalla parte turistica del paese, nel cuore di un conflitto mai realmente sedato. Solo uomini duri e caparbi potevano ancora vivere da queste parti, soprattutto nel momento in cui si hanno i mezzi per potersene andare. E probabilmente era questo che aveva convinto il canadese ad assoldare questo ragazzo, oramai quasi trentenne, dandogli la sua prima grande chance. In realtà per lui sarebbe stata la seconda. Negli anni passati era stato infatti ingaggiato da una formazione italiana poi miseramente fallita a metà stagione, costringendolo ad un anonimo ritorno in patria. Ciò nonostante il ragazzo di Vukovar, che in quel paesino aveva perso quasi tutta la famiglia, era pronto per tornare ai suoi livelli, non avendo mai smesso di allenarsi, con quello scenario intorno, pronto sempre a ricordargli quali siano le vere difficoltà della vita.
Quattro volte campione nazionale, tre a cronometro ed una in linea, mostrava un profilo perfetto per abnegazione e coraggio, di quei corridori che a D'arkness erano sempre piaciuti, così testardamente simili a lui nell'interpretare la vita e la corsa.
Il loro dialogo era stato improntato sulla rapidità e la schiettezza, senza preamboli. E senza giri di parole arrivarono infine al dunque, senza intoppi, con la chiara voglia di rimettersi entrambi in carreggiata, consci di poter avere, l'uno per l'altro, un ruolo determinante.