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cameo87

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  1. c'è pure questa parte :D

    Il sangue di Bella: la confessione di Jaksche - 2

    (seconda parte)

    Nella Germania dell’Est già negli anni sessanta si facevano esperimenti con il cambio del sangue, il metodo venne però accantonato, poiché ebbe maggiore successo il doping sistematico con anabolizzanti. Fuentes ha raccontato a Jaksche che egli stesso aveva trascorso un periodo nella DDR e si era confrontato con allenatori e medici. È però inverosimile che Fuentes avesse imparato tutto lì, il doping ematico c’era anche all’Ovest. Il quattro volte campione olimpiadi di corsa Lasse Viren risulta un pioniere del metodo dell’autoemotrasfusione prima della corsa, quando si iniettava il sangue che si era tolto prima, durante un allenamento in altura. Da allora il metodo divenne di moda.

    SPIEGEL: Lei era a conoscenza di altri corridori che si facevano cambiare il sangue dal dottor Fuentes?

    JAKSCHE: Fuentes era un maestro dell’occultamento. Nessuno dei suoi clienti era a conoscenza dell’altro. Neppure nella nostra squadra non ho mai saputo se altri corridori fossero suoi clienti.

    SPIEGEL: Lei però non pensava sul serio che Fuentes trattasse lei in esclusiva?

    JAKSCHE: No, ma Fuentes te lo faceva credere. Un corridore mi ha raccontato poi che Fuentes gli aveva detto che doveva essere pagato un po’ di più per essere trattato in maniera esclusiva. Probabile che Fuentes abbia fatto così anche con altri ciclisti importanti come Ullrich. Per lo meno pagavo meno dei corridori più famosi.

    SPIEGEL: Come si svolgevano gli incontri?

    JAKSCHE: Io dovevo aspettare in un caffè nelle vicinanze, a volte solo cinque minuti, altre volte anche due ore. Poi era Fuentes in persona che infilava l’ago. “Devo farlo, se voglio tenere il passo degli altri”. E non erano dilettanti. Merino Batres, l’assistente di Fuentes, conosceva il fatto suo, poiché era stato per circa quarant’anni, a quel che si dice, a capo della banca del sangue di Madrid. Mentre il sangue fuoriusciva, mi ha raccontato come il sangue viene raffreddato e trattato. Il pericolo più grosso era che i batteri entrassero o permanessero nel sangue. Per questo egli poneva molta attenzione all’igiene. Il mio braccio veniva sempre disinfettato con un liquido rosso, come se volesse fare chissà quale intervento medico.

    SPIEGEL: Il doping al sangue è più spiacevole delle iniezioni di epo?

    JAKSCHE: Il metodo del cambio del sangue è di per sé nauseante. D’altra parte hai una certezza. Ti dici: “ok, il controllo non mi fa alcun timore. Non sono sostanze pericolose, è il mio stesso sangue”. Per me quello non era un doping, era solo un adattarsi al sistema.

    Nel 2005 Jaksche venne scelto da Saiz quale gregario del capitano, lo spagnolo Roberto Heras. Al Criterium International nelle Ardenne ottenne il terzo posto e vinse la classifica del GPM. Alla Parigi-Nizza ottenne il quinto posto, una caduta gli impedì un piazzamento migliore. Prima della sua corsa preferita si era fatto reintegrare per la prima volta una sacca di sangue. L’autoemotrasfusione è molto complicata dal punto di vista logistico: Fuentes deve programmare le date per la raccolta del sangue e per reiniettarlo considerando che al corridore viene sempre prelevato solo un mezzo litro di sangue e che il corpo impiega fino a quattro settimane per sostituire il sangue vecchio. In questo periodo il corpo si indeboliva e lo sportivo non poteva correre alle gare. E siccome le sacche di sangue sono utilizzabili al massimo per quattro settimane, ad un corridore viene cambiato il sangue durante tutta la primavera. Al primo prelievo l’atleta dà un mezzo litro di sangue, alla seconda visita quattro settimane più tardi, un litro intero, ma viene rimesso il primo mezzo litro prelevato inizialmente. Così Fuentes ha a disposizione un litro di sangue, ma il corridore ne perde solo mezzo litro. Alla terza visita la stessa procedura: l’atleta dà un litro di sangue, e ne riceve indietro un mezzo litro. Così un corridore aveva sempre due sacche fresche nel frigorifero. Richiede una logistica abbastanza puntuale, soprattutto quando risultano esserci più di cinquanta corridori sull’elenco dei clienti. Anche il trasporto della sacca è complicato: le sacche devono essere tenute al fresco e trasportate in tutta Europa. Poiché in Francia vi è una legge anti doping, Jaksche assunse la prima razione di sangue fresco a Madrid prima della partenza del Tour 2005.

    JAKSCHE: Era come un cambio d’olio continuato. Inizialmente su di me non funzionò tanto bene, poiché questo togliere e mettere il sangue mi sfiniva. Perciò ne ho ridotto l’utilizzo al minimo, per la Parigi-Nizza e per il Tour de France.

    SPIEGEL: E come funzionava durante una gara a tappe?

    JAKSCHE: Qui si esalta la logistica di Fuentes. Egli aveva ovunque i suoi collaboratori: nel 2005 il Tour passò dalla Germania. Quindi io andai all’inizio dell’estate da Ansbach a Bad Sachs, là un certo dottor Choina mi prelevò mezzo litro di sangue. L’8 luglio, Choina venne a Karlsruhe e me lo reintegrò per il resto del Tour. È durato due giorni, fino a quando il sangue riconsegnato non si fosse metabolizzato. Ma così ci si sente semplicemente meglio e capisci subito che riesci a tenere più a lungo in salita, non è che non senti il minimo dolore, ma il limite del dolore si innalza. Questo perché nelle sacche di sangue ci sono molti più globuli rossi di quelli di cui tu hai bisogno per trasportare ossigeno, ci sono ormoni della crescita e testosterone, vitamine e proteine. Funziona come una cura di ringiovamento.

    SPIEGEL: Il Tour del 2005 fu un Tour di autoemotrasfusione?

    JAKSCHE: In qualche modo ti rendi conto che quel che fai non è un caso isolato. Mi ero dopato con il mio stesso sangue, ma non era come se avessi una bomba atomica e gli altri lottassero con il machete. Si impara: c’è un nuovo sistema per eludere i controlli.

    Un problema allo stomaco durante una difficile tappa pirenaica costò a Jaksche l’atteso posto tra i primi dieci. In classifica generale si piazzò sedicesimo, miglior tedesco dietro a Jan Ullrich. Con il Tour, la sua ultima sacca di sangue per quell’anno era stata utilizzata. Corse ancora il Giro della Germania e giunse quarto. A settembre incontrò il dottor Fuentes a Madrid, al campionato del mondo, per pianificare la collaborazione per la nuova stagione. Nel 2006 Jaksche fu in grado di approfittare del nuovo sistema di raffreddamento di Fuentes, un ritrovato che gli americani avrebbero sviluppato per la guerra nel Vietnam. Con questo metodo, il sangue viene centrifugato e poi conservato al freddo, a meno 80 gradi. Il vantaggio, rispetto al vecchio sistema, è che il sangue si conserva per dieci anni. In questo modo si possono lasciare in deposito molte più sacche, rispetto ai primi trattamenti. Durante la pausa invernale, Jaksche si recò regolarmente a Madrid una volta alla settimana.

    JAKSCHE: Fuentes cadde in disgrazia presso Saiz. Uno dei nostri corridori venne sospeso, nella prima metà della stagione, a causa del valore dell’ematocrito oltre i 50 e accusato di manipolazione del sangue. Da allora in poi non vi fu più alcuna collaborazione della squadra con Fuentes, ma Saiz mi autorizzò a continuare a lavorare con lui, ma privatamente, a mie spese. Così io e Fuentes ci siamo incontrati a Madrid ad inizio 2006: mi disse che dovevo pagargli 10.000 euro per la prima rata. Glieli diedi. Il programma completo con tutti gli annessi e connessi doveva costare 30.000 euro. Non ne abbiamo discusso, il prezzo mi sembrava equo, lui doveva pagare i prodotti, il suo aiutante e il suo rischio.

    SPIEGEL: Come funzionava il nuovo sistema?

    JAKSCHE: Io sono sempre andato a rifornirmi a Madrid per le corse. Fuentes veniva per lo più al mattino o alla sera in hotel. Era spesso stressato, perché prima delle grandi corse aveva molto da fare. Nelle dichiarazioni della Guardia Civile è riportato che una volta dovette lavorare settantadue ore di fila.

    SPIEGEL: Qual era il suo programma per il 2006?

    JAKSCHE: Per le prime grandi corse di primavera e naturalmente per il Tour de France dovevo ricevere sangue fresco. Era stabilito che prima del Tour io andassi a Madrid e per la seconda parte del Tour il sangue dovesse essere trasportato in Bretagna.

    Fuentes e Jaksche si sono visti per l’ultima volta la notte tra il 13 ed il 14 maggio, a Madrid, nella stanza 605 dell’Hotel Puerta, là, dove Saiz riuniva spesso la sua squadra. Anche quella sera Fuentes gli prelevò del sangue. Dieci giorni più tardi, il 23 maggio, la polizia spagnola perquisì il laboratorio dell’aiutante di Fuentes, Merino Batres e gli appartamenti di Fuentes in Calle Alonso Cano e in Calle Caidos de la Division Azul. Trovarono più di 220 sacche di sangue e di plasma, oltre a grossi quantitativi di ormoni della crescita, anabolizzanti ed epo. Saiz, il direttore sportivo di Jaksche, e Fuentes furono arrestati mentre lasciavano l’hotel. Saiz aveva con sè 30.000 euro e 28.000 franchi svizzeri in contanti oltre a una borsa termica con 4 pacchetti di Synachten.

    SPIEGEL: Come poteva pagare Saiz questi soldi a Fuentes, se i due non avevano più alcun contatto?

    JAKSCHE: Da quello che ho saputo dopo, erano un saldo di Saiz per Fuentes, riferito al 2005. Saiz aveva problemi con un grosso corridore della sua squadra, che all’inizio dell’anno aveva cambiato squadra per approdare alla Liberty Seguros e aveva avuto una pessima primavera. Il corridore e il suo manager, che da cinque anni era anche il mio manager, avevano fatto pressione su Saiz. Volevano un miglioramento nel trattamento con le medicine e Saiz si rese conto di essere in un vicolo cieco: il corridore era costoso, Saiz doveva giustificarsi davanti agli sponsor.

    SPIEGEL: Potrebbe trattarsi del corridore Alexander Vinokourov e del manager Tony Rominger? Perché lei non fa i nomi?

    JAKSCHE: Ancora una volta io non voglio tradire alcun corridore. Saiz ritornò da Fuentes a causa di questo corridore e perciò dovette pagare i debiti. Per questo venne tutto a galla.

    SPIEGEL: Come è venuto a conoscenza lei dell’ispezione e degli arresti dell’Operacion Puerto?

    JAKSCHE: Eravamo in ritiro vicino a Santander, nel nord della Spagna. Alla sera verso le 18, dopo l’allenamento, l’autista del bus ci disse che Manolo ed Eufemiano erano stati arrestati. Non sapevamo altro. Fu una doccia fredda, ero abbastanza confuso. Come avevano fatto ad essere arrestati? Non sapevamo niente, non sapevamo che fosse illegale ciò che facevamo. Una volta ho chiesto a Fuentes cosa sarebbe successo se fosse stato scoperto dalla polizia con sacche di sangue in auto. Niente, ha risposto lui, perché non c’è nessuna legge che proibisca questo lavoro. Il giorno successivo i giornali erano pieni di titoloni, allora me ne andai. Raggiunsi l’aeroporto di Bilbao e poi casa mia, passando per Parigi. Non sono mai stato più felice in vita mia, di avere passato la frontiera francese.

    Jaksche, nonostante la paura, disputò il Giro di Svizzera. Era nervoso, aveva perso cinque chili. Vinse Ullrich, secondo fu lo spagnolo Koldo Gil e terzo proprio Jaksche. Nella foto sul podio appare dimagrito, pesava al massimo 65 chili. “Mi vedo veramente male”, disse Jaksche. Alla vigilia del Tour de France, un giornale spagnolo pubblicò una lista di 37 clienti del dottor Fuentes, che erano stati trattati con il suo metodo. C’erano i due favoriti del Tour, Basso e Ullrich, e anche Jaksche. Ullrich e il suo compagno di squadra Oscar Sevilla, cosi come il direttore sportivo Rudy Pevenage, vennero sospesi dalla T-Mobile. I risultati dell’inchiesta della Guardia Civil furono divulgati.

    JAKSCHE: Le dichiarazioni sui metodi comparivano solo in parte. Il nr. 20, per esempio, apparteneva fino al 2005, ad un altro corridore. Gli investigatori spagnoli pensarono che io fossi nascosto sotto il nome di “Jorge”, il che non è vero e inoltre si è mostrato che non esiste nessun materiale filmato di me. La polizia spagnola trovò un biglietto da visita del dottor Merino Batres, l’aiutante di Fuentes. Batres ha più di 70 anni, è un po’ “senile”. Ad ogni incontro si presentava nuovamente e ogni volta raccontava di andare a sciare in Tirolo. Era così confusionario che i nomi in codice e i numeri relativi probabilmente aveva dovuto segnarli su un biglietto da visita e questo venne rinvenuto durante la perquisizione. Non voglio aggiungere altro, ma va detto che la polizia spagnola ha lavorato in maniera strana, singolare, disordinata, poiché volevano scovare a tutti i costi molto velocemente qualcosa prima del Tour.

    SPIEGEL: Si è meravigliato di tutti coloro che erano sulla lista?

    JAKSCHE: Sì. Ma mi ha meravigliato di più chi non c’era sulla lista, visto quel che sappiamo ora. Ci sono anche versioni diverse di questa lista, all’improvviso sono scomparsi dei nomi nomi. C’è stata una selezione. Alla fine c’erano solo i nomi della mia squadra, la Liberty Seguros, e un paio di grossi nomi, come Ullrich o Basso.

    SPIEGEL: L’Uci afferma che ci sia solo questa versione della lista. Il corridore spagnolo Valverde, per fare un esempio, manca da questa lista. Nel deposito refrigerato di Fuentes fu rinvenuta una sacca con il nome in codice “VALV (PITI)” nella quale furono trovate tracce di Epo. Piti è il nome del cane pastore di Valverde.

    JAKSCHE: Nome, nome in codice, sacca del sangue e sacca di sangue con epo, questo è il mega disastro.

    SPIEGEL: Ma perché qualcuno doveva salvare Valverde?

    JAKSCHE: Dietro di lui ci sono interessi sportivo-politici, perché è la grande speranza del ciclismo spagnolo.

    SPIEGEL: E Jan Ullrich?

    JAKSCHE: La cosa non mi ha meravigliato, non l’avrei fatto neppure se il Re della Spagna fosse stato sulla lista...

    SPIEGEL: Può immaginarsi un altro motivo per cui ci fossero sacche di sangue nella credenza refrigerante di Fuentes, al di là del discorso doping?

    JAKSCHE: Al massimo per la corrida.

    SPIEGEL: Eufemiano Fuentes da allora si è più fatto vivo con lei?

    JAKSCHE: A settembre, quattro mesi dopo l’Operazione Puerto, ricevetti un sms da Fuentes: “Hallo, ecco un tuo vecchio amico, fatti vivo, una volta”. Abbiamo parlato per due o tre minuti. Era calmo riguardo al suo futuro, ma si è anche scusato, perché sapeva in quale situazione io mi ero venuto a trovare.

    Dopo l’Operazione Puerto la Liberty Seguros, lo sponsor della vecchia squadra di Jaksche, si ritirò. E lui si trovò improvvisamente disoccupato. Negò qualsiasi tipo di coinvolgimento, ma i tentativi di trovare una nuova squadra andarono a vuoto: l’Uci non aveva le prove per squalificarlo, però nessuna delle grandi squadre lo voleva assumere, perché gli organizzatori delle grandi corse non volevano nessun corridore della lista Fuentes. Quando, a marzo, in un’intervista rilasciata ad un’agenzia di stampa, Jaksche parlò di ritiro, si fecero vivi velocemente tutti i manager e direttori sportivi della sua carriera: Stanga, Riis, Saiz.

    JAKSCHE: Girava la voce che io parlassi e questo preoccupava molto. Riis ad esempio mi disse che non poteva aiutarmi, che non poteva proprio fare niente per me. E disse che gli dispiaceva. Tutti dicono che il ciclismo sia mafioso, ma questo paragone non calza. La mafia si interessa della propria gente, delle loro famiglie. Quando uno è in difficoltà, non deve farsi problemi. Se il ciclismo fosse una mafia, dovevano dirmi: fermati un anno e poi ti facciamo rientrare noi con un buon contratto. Ma il ciclismo non è mafioso, il ciclismo è senza scrupoli.

    Da due mesi e mezzo Jaksche ha una nuova squadra, quasi per grazia ricevuta. La Tinkoff, appartiene al banchiere russo Oleg Tinkov, è una squadra di seconda divisione, che non è invitata al Tour de France. Jaksche ha il contratto minimo per un ciclista professionista: 37.500 euro. Ha potuto correre solo un paio di piccole corse, ha vinto il Giro di Lorena a tappe e alla Bicicletta Basca è stato secondo. Jaksche dice che non assume più sostanze dopanti. Durante il nostro incontro all’hotel Universo di Lucca, Jaksche parla per otto ore. E nel pomeriggio suona il suo cellulare. È Gianluigi Stanga, il team manager della Milram. Il ciclismo è un mondo piccolo, nel quale le voci si diffondono velocemente. Da settimane ormai Jaksche riceve minacce. Stanga ha sentito dire che Jaksche ha cominciato a parlare. La telefonata ha un tono amichevole, calmo. Stanga ha buone maniere, si potrebbe dire che consoli Jaksche con la speranza che presto passi tutto ciò che riguarda la Operacion Puerto e ritorni la tranquillità. Dice anche che tutti i direttori sportivi fra poco si vogliono unire per chiedere un’amnistia, in modo che i corridori “di Fuentes” possano tornare a correre. Soltanto le squadre tedesche Gerolsteiner e T.Mobile chiedono mano pesante per l’Operacion Puerto. Stanga non lo minaccia, Jaksche non ha altro da perdere. Nelle due settimane trascorse dall’incontro di Lucca, Jaksche ha ricevuto più di quaranta chiamate. Direttori sportivi, massaggiatori, corridori:, non sono in molti a sostenerlo, un paio lo minacciano, dicendogli che non ci sarà più spazio per lui nel ciclismo. Ma nonostante ciò, Jaksche si allena sei ore al giorno, ogni giorno.

    JAKSCHE: Questi sono i momenti nei quali si riflette. E ci si chiede se la decisione di parlare sia stata giusta o meno. So che la mia decisione può avere conseguenze molto importanti. Ho paura di questo e ancora dubbi. Io mi sono trovato bene con Bjarne, Stanga e gli altri, non voglio arrecare loro danni. Bjarne ha investito quest’anno 500.000 euro nel sistema antidoping della sua squadra, la CSC, e sono soldi suoi, non come alla T Mobile, dove i soldi sono della società.

    SPIEGEL: Perché Riis ha scelto per primo questa strada?

    JAKSCHE: Perché ha capito che si deve cambiare qualcosa, altrimenti lo sport va in malora. Naturalmente questa è una decisione nettamente economica, naturalmente guadagnerà altro denaro con la sua ditta. Ma erano econimiche anche le basi che lo portarono a doparsi a suo tempo: soltanto chi usava il doping vinceva. Solo chi vinceva, diventava famoso. Solo chi era al centro dell’interesse dei media, rendeva felici gli sponsor. Solo gli sponsor investivano nuove risorse per l’anno successivo.

    SPIEGEL: Riis si è messo in contatto con lei anche nei giorni scorsi?

    JAKSCHE: Sì, è stato molto gentile, molto cordiale. Aveva sentito che avevo parlato con Der Spiegel e voleva sapere se era vero. Gli ho chiesto: perché mi chiami adesso? Quando ero senza lavoro, non mi hai contattato.

    SPIEGEL: Signor Jaksche, lei ha taciuto e mentito per dieci anni sul tema del doping. Perché parla ora?

    JAKSCHE: Credo sia importante per il futuro di questo sport che qualcuno dica: ok, funziona così. Un giorno io busserò alla porta di un direttore sportivo in occasione di una grande corsa e dirò: “volevate lasciarmi per strada, ma sono ancora qui”. Naturalmente nessuno mi ha tenuto fermo il braccio per farmi le iniezioni, ma i direttori sportivi che prima ti avevano preparato e ti avevano insegnato la cosa, si comportano improvvisamente come se fossero tutti a favore di un ciclismo sano.

    SPIEGEL: Perché lei si è dopato?

    JAKSCHE: A prima vista il ciclismo non è bello. E per farlo si fa fatica. Lo sport in generale si fa con molti dolori, dolori fisici, ferite e l’allenamento è il tentativo di migliorare la tua forze, la capacità di resistenza, per arrivare a valori ai quali non sei abituato. Per non sentire dolori forti all’inizio si ricorreva al cortisone, poi all’Epo e oggi al sangue fresco. Il ciclismo è uno sport pesante. Nel calcio giochi bene novanta minuti e sei subito un mito, nel ciclismo devi dare il massimo in novantanove corse su 100 e hai poco seguito.

    SPIEGEL: Avrebbe continuato a doparsi se non fosse stato sulla lista di Fuentes?

    JAKSCHE: Sì, probabilmente lo avrei fatto, poiché sono egoista. Ogni persona normale dovrebbe dire: “non si può continuare così, perché in questo modo tutti gli sponsor se ne vanno”. Ma se non fossi stato su quella lista e mi allenassi come un matto, non avrei nessuna chance senza doping. Quando sai che il ciclismo non è cambiato alle fondamenta, allora devi fare qualcos’altro. È perverso ma il sistema doping è questo, perché tutti si dopano. Il ciclismo senza doping sarà possibile solo quando nessuno si doperà più. Un corridore mi ha raccontato che, a causa dei controlli a sorpresa, un paio di squadre e la federazione mondiale avrebbero preso “accordi”. Quando me lo ha raccontato, era fiero. Allora ho capito che niente era cambiato.

    Lo scorso giovedì Der Spiegel ha raccolto le prime reazioni alle ammissioni di colvepovelezza di Jaksche.

    Il primo a reagire è stato Stanga, che ha spedito un fax dall’Italia: “le affermazioni di Jaksche sono completamente contro i miei principi e le mie competenze professionali”.

    L’ex team manager della Telekom, Godefroot ha negato decisamente qualsiasi coinvolgimento e di aver portato prodotti dopanti alle corse. Dice di essersi attenuto esclusivamente alle nuove leggi francesi, secondo le quali solo le medicine provenienti da farmacie francesi, prescritte da medici francesi, siano legali. Di fronte al doping dichiara: “tolleranza zero”.

    L’avvocato difensore del medico Markus Choina, uno degli aiutanti del dottor Fuentes in Germania, ribatte alle accuse dicendo di non aver mai utilizzato metodi illeciti. “Appena la pratica completa verrà messa a disposizione della difesa, risponderemo in modo adeguato”.

    Tony Rominger, manager di Vinokourov, dice al telefono: “Non ho mai fatto pressioni per favorire pratiche doping e non ho mai spinto i miei corridori a farne uso”.

    Il corridore tedesco Jens Voigt scrive che le rivelazioni circa il nascondiglio del doping della sua squadra durante lo scandalo del Tour 1998 non le ha fatte lui.

    I corridori Vinokourov e Valverde hanno sempre negato qualsiasi conivolgimento con il doping.

    E anche Bjarne Riis contesta a parole tutti i fatti narrati da Joerg Jaksche. Solo una cosa ha confermato: la chiamata fatta a Jaksche due settimane fa, dopo aver sentito su una possibile confessione su Der Spiegel. “Sì, è vero - scrive Riis - ne abbiamo parlato”.

    Saiz l’ex direttore sportivo di Jaksche, il medico spagnolo Fuentes e i due medici di Friburgo Heinrich e Schmid finora non hanno commentato le dichiarazioni di Jaksche.

  2. intervista trovata su internet

    TI MOSTRO COME FUNZIONA IL CICLISMO

    Joerg Jaksche è il secondo corridore tedesco, dopo Jan Ullrich, nella lista di clienti del medico spagnolo Eufemiano Fuentes. Per un anno lo ha negato. Ora si mette a disposizione, in quello che finora è il più grosso scandalo di doping del professionismo, quale testimone principale e racconta la storia della sua carriera dopata.

    Il suo trolley e una valigetta di plastica sono tutto ciò che si è portato all’Hotel Universo, in Piazza del Giglio a Lucca. Indossa una camicia bianca, jeans, scarpe da ginnastica e sembra uno studente al rientro da una lezione universitaria. È venerdì, 15 giugno, fra tre settimane inizia il Tour de France, ma Jaksche non potrà parteciparvi.

    Nonostante questo, stamane si è allentato due ore sulle colline della Toscana: ogni giorno pedala per sei ore, perché non ha ancora abbandonato la speranza, di ritornare a gareggiare, prima o poi.

    Ma oggi non è un giorno normale. Jaksche chiede se ci sono novità, nuove voci, qualche cosa che lui debba sapere. Parla con voce bassa ed esitante, come uno che non è sicuro delle sue cose.

    Nella valigetta di plastica nera c’è il fascicolo con la relazione sull’inchiesta che la Guardia Civil ha imbastito nei confronti del medico spagnolo Eufemiano Fuentes, la corrispondenza con i suoi avvocati difensori, un paio di appunti. Nella valigetta di plastica nera porta in giro l’intero disastro della sua carriera di ciclista.

    Jaksche era un cliente di Fuentes, il cui laboratorio doping fu scoperto un anno fa dalla polizia spagnola: l’Operàcion Puerto ha portato alla luce il più grosso scandalo nella storia del ciclismo.

    Ciclisti come Jan Ullrich e Ivan Basso erano clienti di Fuentes ed altri ce ne sono, forse cinquanta, forse di più.

    L’inchiesta è ferma però da oltre quattro mesi perché non c’è alcun fondamento giuridico per le accuse.

    I corridori coinvolti e i direttori sportivi hanno fatto passare tutto in silenzio, qualcuno ha protestato, un paio di squadre hanno annunciato la loro scelta di gareggiare senza doping, la maggior parte delle altre squadre ha solo sperato che la tempesta passasse presto e che tutto tornasse come prima.

    Nei documenti della polizia spagnola c’è il nome di Jaksche, nascosto dietro il nome in codice di BELLA. Bella era il nome della cagnolina Labrador di Jaksche. L’ha fatta sopprimere tre anni fa, aveva 16 anni, e quando il dottor Merino Batres, un ematologo di Madrid, braccio destro di Fuentes, aveva voluto sapere da lui se volesse dare alle sacche di sangue il nome in codice del suo cane, Jaksche rispose: «Sì, Bella».

    Jaksche ci incontra all’Hotel Universo, valigetta di plastica nera nella mano, perché si è deciso a raccontare la verità. È il primo corridore della lista di Fuentes che rompe il silenzio. Ora è il testimone principale.

    «Io sono Bella - dice Jaksche - ed è mio il sangue che è stato trovato nelle tre sacche. Sono anche il “nr. 20” negli atti e nel 2005 e 2006 sono stato cliente del dottor Fuentes di Madrid».

    Jaksche parla della vita di un corridore ciclista professionista. E poi delle eccellenti prestazioni logistiche, della dozzina di corridori a cui Fuentes procurava sangue fresco. Dell’Epo che gli davano i dottori, dei corticoidi sui quali scambiava due parole con Bjarne Riis. Di ciò che succede quando si cerca di correre un Tour di France senza Epo. Dei team manager che lo hanno formato come professionista e che sistematicamente promuovevano nelle loro squadre il doping e che anche in questo Tour de France siedono in ammiraglia.

    Joerg Jaksche diventa un testimone fondamentale, perché l’omertà e la legge del silenzio non funzionano più.

    L’omertà ha funzionato perché tutti - direttori sportivi, dottori, corridori, massaggiatori, meccanici - conoscevano l’uno le colpe degli altri. Tutti erano ricattabili, tutti tacevano.

    Ora Jaksche scrive una nuova pagina della storia che il massaggiatore belga Jef D’Hont e i corridori della Telekom Bert Dietz, Rolf Aldag ed Erik Zabel hanno raccontato sul ciclismo degli anni Novanta fino ad oggi.

    Joerg Jaksche, 1 metro e 85 cm di altezza, 70 chili di peso, viso spigoloso e mento pronunciato, ora ha 30 anni. È professionista da dieci anni e corre per grandi squadre, è tra i migliori venti corridori del mondo. Attualmente è sotto contratto con una squadra di seconda divisione italo-russa che non è stata invitata al Tour de France.

    Trent’anni, l’età giusta per vincere il Tour de France. L’età nella quale un buon corridore può guadagnare bene. Ma è anche l’età nella quale non ci si può più concedere pause.

    Jaksche ha deciso di parlare anche perché non può più partecipare a grandi corse. Ed è pronto a mettersi a disposizione di tutte le autorità del ciclismo e della Wada e si farà interrogare dai procuratori di stato tedeschi, perché non vuole fermarsi per due anni o più, ma vuole rientrare in gruppo già dal prossimo anno. E pensa che Ullrich, Basso e gli altri, coinvolti nei fatti spagnoli, siano solo i capri espiatori, mentre il resto del gruppo corre ancora e continua sicuramente ancora a doparsi. E si arrabbia per come i direttori sportivi oggi si comportino come se da sempre fossero scesi in campo contro il doping.

    Non sa valutare quali conseguenze avrà la sua confessione. Non vuole essere un “becchino” del ciclismo, non vuole rendere disoccupati 200 colleghi. Teme le conseguenze penali, teme di essere additato come traditore, teme il pudore che tutti affermano, mentendo, spiegando di avere genitori, amici, la pubblicità negativa. Per questo Jaksche è un testimone principale che vacilla. Suo padre è oculista, così come lo era suo nonno. Lo sarebbe stato anche lui, se non avesse fatto il ciclista.

    Joerg Jaksche è un buon testimone, è eloquente, sa descrivere le strutture. È prigioniero di un sistema e ora osa la fuga.

    SPIEGEL: Signor Jaksche, lei ha iniziato la sua carriera da professionista dieci anni fa con la squadra italiana Team Polti. Il team manager era Gianluigi Stanga, che dal 1983 gestisce squadre: oggi Stanga è responsabile della Milram, nella quale corre anche Erik Zabel. Quando ha avuto il primo contatto col doping?

    JAKSCHE: Alla Parigi-Nizza del 1997, la mia prima grande corsa. Andavo abbastanza bene, in una tappa ero transitato sul Mont Ventoux nel gruppo in fuga. Mi ricordo, perché quello era stato veramente un giorno decisivo per me. All’arrivo venne Stanga da me e mi chiese: “Cosa hai preso?”. Non capii la domanda e risposi: “Cosa devo aver preso?”. Sicuramente deve aver pensato che mi prendessi gioco di lui... La sera Stanga venne a trovarmi nella camera d’albergo che condividevo con Dirk Baldinger, mi tolse del sangue e misurò il mio valore di ematocrito, per scoprire se avessi assunto Epo. Avevo un valore di 41, relativamente basso. Guardai Baldinger per dirgli: “Cosa significa tutto ciò?”. Stanga disse solo: “Ti farò un contratto per cinque anni”. Io ero sicuramente molto ingenuo.

    SPIEGEL: Fra gli juniores lei è stato un campione del quartetto su strada e vice campione del mondo tra gli Juniores. A quei tempi non c’era doping?

    JAKSCHE: Da junior e da dilettante non mi sono mai dopato. Naturalmente quando gareggiavamo in Italia, a volte ci meravigliavamo. Là si correva con la nazionale dilettanti al completo e si finiva piazzati al 160esimo/170esino posto e ci si chiedeva: “come possono correre così veloci degli uomini normali?”. Pastiglie di caffeina o un paio di sorsi di Cola mischiata con vino spumante, un eccitante per gli ultimi chilometri fino all’arrivo, oppure un’aspirina: questo per me era tutto, ma nulla di quel che prendevo figurava sulla lista dei prodotti dopanti. Ma ci si abitua presto ad assumere qualcosa che il giorno dopo ti faccia sentire meglio. Si va in ritiro in altura in Messico e si capiscono molte cose: ci si allena in altura e così aumenta il numero dei globuli rossi del corpo che trasportano l’ossigeno. Capisci come funziona e che lo stesso effetto si può raggiungere anche con i trattamenti medici. In un solo anno si accumulano un sacco di conoscenze mediche.

    SPIEGEL: Può spiegare meglio?

    JAKSCHE: Ero in buona forma, andavo bene in salita e dopo un allenamento un dottore della Polti mi disse che dovevo prendere Vitamina B12, acido folico e ferro. “Nessun problema, risposi, me li compro”. “No - rispose lui - te li diamo noi e quando sei a casa, devi farti da solo le iniezioni”.

    SPIEGEL: Quando le fu iniettata per la prima volta l’Epo?

    JAKSCHE: Poco prima del Giro di Svizzera del 1997. Eravamo in un hotel sul lago di Costanza. Stanga disse che voleva iniziare con il trattamento, voleva capire quanto poteva migliorare le mie prestazioni. Quel che voleva dire era: ti mostriamo come funziona il ciclismo. Quello fu il mio rito di iniziazione. Un accompagnatore mi iniettava Epo, alla sera, nella mia camera. Delle quantità di epo non mi ricordo niente, ma nel frattempo seppi che l’Epo rendeva denso il sangue, quando la dose è troppo elevata. Andando a letto pensavo: “speriamo che stanotte il mio cuore non si fermi”. Nei giorni successivi ricevetti anche compresse di Medrol, che contengono un ormone delle ghiandole surrenali e hanno un effetto anti-infiammatorio. E provai anche il Synachten che favorisce la produzione corporea dei corticoidi, funziona molto velocemente, lo si può prendere per le corse di un giorno o per tappe importanti: all’inizio della gara ci si sente male, gonfi come dopo aver bevuto troppa acqua, ma dopo 80 chilometri di gara improvvisamente fa effetto. Il problema fu che a me vennero piccole pustole su tutto il torace e sulle braccia. Dopo il Giro di Svizzera mi feci visitare prima a Norimberga: i dottori tiravano a indovinare sulla causa primaria del disturbo, ma non potevo rivelare loro quello che avevo preso. Alla fine mi feci visitare in Italia e presi antibiotici per una settimana, indebolendomi. Per scherzo Stanga disse “speriamo tu non sia allergico all’Epo”.

    SPIEGEL: Davanti a tutto ciò non si è chiesto: cosa sta succedendo fra i professionisti?

    JAKSCHE: Volevo smettere, non mi sentivo bene. Quelle iniezioni mi rendevano asociale, ma col passare del tempo mi ci sono abituato. Quando arrivavano i primi successi, diventavi sempre più professionista e non guardavi più di tanto a quello che facevi. È proprio come ha detto Bjarne Riis durante la sua confessione: la medicina appartiene al tuo vivere quotidiano.

    SPIEGEL: Lei è andato anche oltre?

    JAKSCHE: Stanga aveva migliorato il mio contratto nel 1998, durante il mio secondo anno, e guadagnavo già 80.000 marchi. Poi mi disse: quest’anno devi diventare la rivelazione del Tour. E se entrerai nei primi 20, non dovrai più pagare le medicine.

    SPIEGEL: Era Stanga che si occupava delle medicine?

    JAKSCHE: Chi se n’è occupato, non lo so. Ad ogni modo non certo io. Dove avrei potuto procurarmele? Alla farmacia di Ansbach? Il mio programma stagionale era prevalentemente imperniato sul Tour de France. Due settimane prima del giro di Svizzera ho iniziato con la cura a base di Epo: ogni due giorni, da 1000 a 2000 unità. Non c’erano più scrupoli e ci si convince che non sia poi cosi male. Tutto ciò che dovevo fare per poter migliorare il mio lavoro, l’ho fatto. La logica è: tu lo fai, perché lo fanno tutti. Nel ciclismo, tu vivi in un mondo parallelo.

    SPIEGEL: Non aveva paura per la sua salute?

    JAKSCHE: Anche se adesso ci ripenso coscientemente: sì, mi sono dopato, ma non ho esagerato. Non ho mai preso emoglobina artificiale o cose del genere, che possono causarti uno shock anafilattico. E ti tranquillizza il fatto che un bodybuilder prenda ogni giorno 16.000 unità di ormone della crescita mentre tu ne prendi 800 unità per rigenerarti. Allora pensi: non è poi così tanto.

    Tre giorni prima della partenza del Tour de France nel 1998 a Dublino, un massaggiatore della Festina fu fermato alla frontiera franco-belga. La sua automobile era piena di fiale di Epo e di altri preparati, la notizia raggiunse velocemente Dublino, dove le squadre si stavano preparando alla partenza del Tour.

    JAKSCHE: Da principio ho pensato: per che cosa si agitano? Ognuno ce l’ha con sé, quindi è normale, no? A nessuno piaceva doparsi, né a Stanga, né a Rijs, ma nel mondo nel quale viviamo non c’è alcuna coscienza dell’ingiustizia. Ma la situazione era spiacevole e man mano che il Tour de France procedeva, c’era paura della polizia e dei controlli antidoping. Chiesi a Jens Voigt, che correva allora per la francese Gan, cosa facesse in merito la sua squadra. Voigt mi spiegò: uno di noi è andato avanti per nascondere tutto lungo la strada. Ci siamo comportati allora come dei contrabbandieri. Nella nostra squadra, qualcuno ebbe l’idea di nascondere l’Epo nel doppiofondo di un aspirapolvere, che portavamo in giro con noi sul nostro bus durante il Tour. Polti, il nostro sponsor, produceva elettrodomestici per la casa. Nell’aspirapolvere Polti ci stavano le 10.000 ampolline insieme ai sacchetti di ghiaccio. La sera, dopo la tappa, andavo sul bus e mi iniettavo le sostanze dopanti. Durante il Tour ogni due giorni mi iniettavo 2000 unità con aggiunta di ormone della crescita, per rigenerare meglio e insulina, per rendere più veloce l’assorbimento di queste sostanze».

    Ma dopo dieci, dodici giorni il rischio era diventato troppo alto. Scoppiò il caos, la Festina venne fermata. Ullrich era in giallo e crollò in montagna. Ci furono retate della polizia, corridori vincevano, corridori si fermavano e restavano a piedi, corridori scioperavano, un paio di squadre andarono a casa. Questo fu il Tour de France: a Parigi arrivarono 96 corridori su 189 partiti. Fra questi Joerg Jaksche, numero di gara 146, 18° in classifica. Fu anche il Tour che permise a Jaksche di ottennere un nuovo contratto, con la Telekom. In soli due anni era arrivato in alto, da neoprof scarsamente pagato a giovane promessa in squadre prestigiose. Ora Jaksche guadagnava 300.000 euro a stagione, gli diedero un’Audi come auto di servizio.

    «Ero libero da affanni e pensavo: Super, la Telekom è il Bayern Monaco del ciclismo».

    La squadra era stata creata dal belga Walter Godefroot, onesto professionista negli anni ’60/70 che per due volte aveva rifiutato un test antidoping. Dopo aver guidato piccole squadre, nel 1992 passò alla Telekom, squadra che voleva scalare le alte vette del ciclismo e raggiungere grossi traguardi. Corridori come Erik Zabel, Jan Ullrich o Bjarne Rijs approdarono alla Telekom e divennero corridori di successo. E Jaksche era stato indicato da Godefroot come “erede” di Jan Ullrich.

    Il programma della squadra prevedeva per l’inizio di gennaio 1999 due settimane a Maiorca all’hotel Valparaiso Palace, il primo ritiro collettivo di allenamento. Jaksche sapeva che anche nella sua nuova squadra si sarebbe dopato, pur non sapendo bene come.

    JAKSCHE: Dopo un paio di giorni, durante un’uscita collettiva mi rivolse la parola uno dei direttori sportivi. Mi chiese come mi fossi preparato l’anno prima per le grandi gare. Gli raccontai delle mie tabelle di allenamento. Allora mi chiese: e altre cose? Gli ho detto quello che avevo preso. Assolutamente nessun problema, disse lui, parlava con i dottori di “Cose”. Questa era la parola che i direttori sportivi utilizzavano.

    SPIEGEL: Anche Godefroot?

    JAKSCHE: Ci fu una riunione della squadra nella sala conferenze dell’hotel, erano presenti tutti i corridori e il personale della squadra. Godefroot parlò della divisione dei premi e di alcune piccole cose. Poi arrivò al punto, parlando nel suo strano tedesco-fiammingo. Ci avvertì di non portare alle corse cose che fossero pericolose. Non parlava né di doping né di Epo, ma per me fu chiaro che ci si riferiva a quello. Dopo quindici minuti il tema era stato affrontato. Era un modo di eloquente tacere.

    SPIEGEL: Cosa sapeva Godefroot?

    JAKSCHE: Il direttore generale della squadra sapeva tutto. Vigeva un sistema fermamente ben oliato.

    SPIEGEL: I corridori furono seguiti da due medici della Clinica universitaria di Friburgo, Andrea Schnmid e Lothar Heinrich. Si occupavano entrambi anche di medicine?

    JAKSCHE: Sì, i friburghesi però non amavano le pillole e dicevano: quando vuoi prendere qualcosa, prendi soprattutto Epo. Heinrich mi diceva di non prendere insulina perchè altrimenti avrei potuto diventare diabetico. Con i medici mi sentivo più tranquillo che non alla Polti.

    SPIEGEL: Chi pagava?

    JAKSCHE: Durante la prima stagione ho pagato 3000-4000 marchi per i prodotti dopanti.

    SPIEGEL: A chi andava il denaro?

    JAKSCHE: Per lo più ai medici. In denaro contante. Forse una o due volte li ha presi un direttore sportivo. Non posso dire di aver mai dato soldi a Godefroot.

    SPIEGEL: Schmid e Heinrich guadagnavano su quel commercio?

    JAKSCHE: No. Conoscevo i prezzi dei prodotti sul mercato. I medici devono essersi detti: meglio che ce ne occupiamo noi, prima che vadano a fornirsi a Timbuktu in qualche palestra di bodybuilding. Penso volessero che gli atleti fossero legati a loro per poter condividere i loro successi.

    SPIEGEL: Quali medicinali ricevette?

    JAKSCHE: Epo, poi in aggiunta ormoni della crescita per migliorare il recupero. Era cosa di tutti i giorni alla Telekom la misurazione del valore ematocrito, poichè ovviamente un valore sopra i 50 avrebbe significato l’esclusione dalle gare.

    Nel 1999 Jaksche venne “curato” ulteriormente in vista del Tour de France. Dopo lo scandalo Festina, doveva essere il cosiddetto «Tour della rinascita». Tempestivamente, in occasione del Giro di Svizzera, ultima grande corsa prima del Tour, Jaksche smise di assumere Epo. Gli tornarono alla mente gli avvertimenti di Godefroot a Maiorca: il suo valore ematocrito era pronto, non così per altri corridori della Telekom.

    JAKSCHE: Un giorno, al Giro di Svizzera, una mattina in hotel a Losanna arrivò uno dei due medici, non ricordo quale, e disse: “Mancava veramente poco” mostrando a Godefroot un foglio con i valori della centrifuga. Allora Walter divenne così pallido che nessuno si preoccupò più dei valori evidenziati, ma solo di Walter.

    SPIEGEL: Godefroot dice oggi di non avere saputo niente di quel doping sistematico.

    JAKSCHE: Sapeva tutto, doveva esserne informato, perché non si può chiudere gli occhi davanti all’evidenza.

    SPIEGEL: Godefroot fu messo pesantemente sotto pressione. A giugno 1999 comparve su Der Spiegel un articolo che descriveva le pratiche di doping in seno alla Telekom e faceva riferimento a fonti provenienti direttamente dalla squadra stessa.

    JAKSCHE: Quell’articolo creò preoccupazione nella maggior parte dei corridori. Tutti chiedevano: chi è il traditore? Io ero nuovo, non sapevo niente, ma quello che scoprii poi, si adattava con le storie lette su Der Spiegel.

    Dopo anni trionfali la squadra andò in crisi, nel 1999. A causa di una caduta Ullrich dovette rinunciare al Tour e per Jaksche quella corsa fu un disastro. Alla seconda tappa, fu coinvolto in una caduta di gruppo, si ferì, ma il problema reale era un altro: Jaksche correva senza l’aiuto di sostanze dopanti.

    SPIEGEL: Come se la cavò?

    JAKSCHE: Tu speri, giorno dopo giorno, che il tempo scorra più lentamente. Fatichi sempre di più e recuperi sempre meno. Non potevo tenere il passo su nessun terreno e divenni completamente anonimo: alla fine avevo paura persino di essere staccato su un cavalcavia. Arrivai ad essere contento perfino di una caduta, per avere una scusa per il mio scarso rendimento. Cosa puoi dire se parti come erede di Ullrich e arrivi a Parigi ottantesimo? Mi sono arrabbiato con me stesso per la mia stupidità, anche perché mi ero lasciato prendere dalla paura. Dopo il Tour, a settembre, affiancai Jan Ullrich alla Vuelta. Ero in forma, ma i miei valori del sangue erano bassi: sapevo che con questi valori non sarei andato lontano. Ma quando arrivai in Spagna, le cure erano già state organizzate.

    SPIEGEL: Il diktat di Godefroot - non portare nulla di pericoloso alle corse - non valeva più?

    JAKSCHE: In Spagna potevi portare le iniezioni di epo dovunque e nessuno ti avrebbe fermato o arrestato. In Francia non potevi più farlo.

    SPIEGEL: Ullrich vinse anche grazie a lei. Perché allora lei lasciò la Telekom un anno più tardi?

    JAKSCHE: Avevo avuto un’offerta e la colsi. All’inizio dell’anno ero ancora un buon giovane, il mio valore di ematocrito era basso. Godefroot disse: tu non metti in pericolo la mia squadra.

    SPIEGEL: E ciò ha cambiato le cose?

    JAKSCHE: Sì. Dopo la vittoria di tappa di Giuseppe Guerini all’Alpe d’Huez. La vittoria nella tappa più importante del Tour de France salvò la stagione a Godefroot. Ufficialmente si diceva “non portate nulla con voi”, ma in realtà era tutta un’altra cosa. Chi andava alle corse con 44 di ematocrito era un ragazzo coraggioso che veniva compatito. Quello che aveva ematocrito a 48 metteva in allarme e quello che aveva 49,5 metteva la squadra in pericolo. Godefroot non accettava il fatto che qualcuno si dopasse ma poi lui stesso ti induceva a farlo.

    Quell’anno Lance Armstrong vinse il suo primo Tour e i risultati dei test antidoping furono tutti negativi. Il direttore del Tour Jean Marie Leblanc disse: “La mia convinzione è che l’uso di epo sia scomparso o ridotto al minimo”, non ci furono retate né scandali. Dopo sei anni venne reso noto che nelle urine di Armstrong del 1999, grazie a nuovi metodi di ricerca, furono rinvenute tracce di epo. Per il Tour de France 2000 Jaksche non venne inizialmente convocato, poi a fine di giugno, in occasione del campionato tedesco ad Heppenheim, Jaksche seppe che il suo contratto non sarebbe stato rinnovato. Ma nella primavera del 2000, alla partenza della classica Liegi-Bastogne-Liegi, Jaksche entrò in contatto con Manolo Saiz. Il direttore sportivo della squadra spagnola Once è un vero patriarca e un perfezionista, che il giorno prima di una tappa del Tour la percorre in macchina e la sera infligge ai suoi corridori un video di 4 ore. Saiz chiese a Jaksche il suo numero di cellulare e poco tempo dopo gli propose un contratto di due anni, con guadagno leggermente superiore che alla Telekom. Once è la squadra della società della lotteria per non vedenti. In primavera incontrò la squadra per due settimane durante un ritiro a El Bosque vicino a Malaga. Un hotel senza televisione, la sera i corridori si sedevano insieme, uno suonava la chitarra. Tutto era organizzato perfettamente, anche l’assistenza medica.

    Il 2001 iniziò bene: Jaksche fu terzo alla Freccia Vallone. Alla Parigi Nizza era stato secondo per due volte e alla fine si classificò ottavo. Al Tour de France vestì alcuni giorni la maglia bianca di migliore giovane. La squadra puntava su di lui come gregario d’eccellenza per Joseba Beloki, che a Parigi fu terzo, mentre Jaksche arrivò ventinovesimo.

    SPIEGEL: Cosa c’era di diverso alla Once?

    JAKSCHE: Mi trovai improvvisamente in una famiglia, che si preoccupa per te e ti aiuta. E Saiz era il boss, il capo di questa famiglia, nessuno osava contraddirlo. Ha sempre detto: venite pagati non per pensare, ma per ubbidire.

    SPIEGEL: Com’era organizzato il doping?

    JAKSCHE: Io ero completamente nelle mani del medico e non posso dire con certezza cosa assumevamo. Semplicemente porgevo il mio braccio e mi lasciavo iniettare, non c’era altra scelta. E quando lo fai sei convinto che non ti stiano dando nulla che ti possa far risultare positivo. Questo è quel che conta di più per un corridore: tu consideri la storia della squadra e pensi “in dieci anni hanno sempre pensato ai loro corridori”, perciò anche a te non può succedere niente. Mi hanno preparato il programma per tre anni: non è semplice, ma non volevo sapere altro. Mi andava bene cosi, ero sano e ottenevo buoni risultati. Era un pacchetto “chiavi in mano”.

    Al Tour del France del 2002 la Once batté nella cronometro la squadra di Lance Armstrong. Jaksche ottenne il trentunesimo posto e fu il migliore tedesco. Contento di questo piazzamento, raramente pensava a come sarebbe proseguita la sua carriera. Jaksche continuava a fare tutto ciò che ci si aspetta da un corridore professionista. Ma gli mancava il talento di un Ullrich, l’aggressività di un Rjis e la determinazione di un Armstrong per arrivare in alto. Al Tour de France del 2003 ebbe la possibilità di ottenere il più grosso successo della sua carriera durante una tappa in montagna: il suo capitano Beloki fu vittima di una caduta, Jaksche era virtualmente maglia gialla nel gruppo in fuga, ma si fermò accanto al suo capitano. Lo spagnolo riportò molte fratture, Jaksche giunse al traguardo con parecchio ritardo: “Avrei tradito la mia coscienza se non mi fossi fermato. la per terra c’era il mio amico Beloki” disse. E a Parigi fu diciassettesimo.

    Alla fine dell’anno lo sponsor Once si ritirò, la squadra si sciolse. Jaksche dovette cambiare nuovamente e pensò alla Gerolsteiner, optando poi per la squadra danese CSC, dove ottenne un contratto biennale di 500.000 euro all’anno. Nel contratto c’era la clausola: chi si dopa, viene espulso. Era un paragrafo con il quale allora ogni direttore sportivo voleva dimostrare la propria volontà di lottare contro il doping. Capo della scuderia era Bjarne Riis, vincitore del Tour del 1996: Rjis gode di buon ascendente fra i corridori come direttore sportivo anche se il suo vecchio massaggiatore della Telekom Jef D’Hont lo definisce - a causa del suo alto valore di ematocrito “Mister 64 per cento”.

    SPIEGEL: Perché venne scelto dalla CSC di Bjarne Rjis?

    JAKSCHE: Diciamo che, la sua storia, il suo passato come corridore non furono determinanti per me. Ma non c’era ragione per cui io non andassi da lui pensando: sa bene come vanno le cose. Mi ha impressionato l’ascendente che dimostrava nei confronti di corridori come Laurent Jalabert o Tyler Hamilton. È un pragmatico, cerca sempre di ottenere il massimo. Conoscevo Riis da molto tempo, visto che abita vicino a Lucca. All’inizio del 2004 ci siamo accordati per incontrarci e andare a sciare sull’Abetone. Sullo skilift a due posti abbiamo parlato del calendario delle gare e ci siamo addentrati anche nel discorso di ciò che un corridore può fare per migliorare la sua prestazione, così come aveva fatto a suo tempo Pevenage con la Telekom. Il 2004 fu un anno difficile, le condizioni generali di base erano completamente cambiate: ora c’era anche un test per prova diretta di Epo, furono fatti anche controlli durante gli allenamenti. I primi 50 corridori del mondo dovevano notificare ogni loro spostamento per i controlli a sorpresa. Ebbi spesso il sentore del panico: non potrò ottenere più risultati? Potrò ancora guadagnare tanto? Come spiegherò il mio calo di prestazione? Poi pensavo: è ingiusto, i primi cinquanta corridori vengono controllati, gli altri no. Eravamo costretti ad andare alla ricerca di altri metodi per mantenere il medesimo livello di prestazione.

    SPIEGEL: Quanto spesso veniva controllato?

    JAKSCHE: I controlli a sorpresa erano sporadici e superficiali. Avrei potuto semplicemente andare alla porta, dichiarare di essere mio fratello e i controllori se ne sarebbero andati via. Raramente sono stato testato durante gli allenamenti. Con Bjarne abbiamo parlato spesso di questo problema.

    SPIEGEL: Con Riis vi era un doping organizzato?

    JAKSCHE: Riis conosceva naturalmente il doping. E penso che fosse combattuto fra ciò che era il doping ai suoi tempi e ciò che oggi era ancora possibile fare. Era una ricerca primordiale fra la visione di uno sport sano e la consapevolezza che senza doping non si va. C’era la possibilità allora, di prendere il Synachten e altri prodotti che sono legali, perché ufficialmente non figurano sulla lista doping. Ma lo scopo era il medesimo: doparsi. Il livello generale in quell’anno era più basso, la difficoltà in salita era emersa, nessun paragone con il 1997, quando l’ematocrito fu portato a 50.

    SPIEGEL: Cosa prendeva con Riis?

    JAKSCHE: Epo, ma solo fino alla Parigi-Nizza, poichè dopo, come già detto, divenne troppo pericoloso. A Bjarne ho detto: “Il mio top per quest’anno l’ho raggiunto. Adesso non voglio correre altri rischi. In pratica, per l’intera stagione prendemmo cortisone. È inserito nella lista doping, ma è consentito per determinate condizioni, basta dire di essere asmatico. Così si poteva portare alle corse, senza paura di controlli. Il cortisone veniva iniettato per via intramuscolare alle corse, perché così ha un effetto migliore.

    A febbraio del 2004 Jaksche vinse il Giro del Mediterraneo e quattro settimane dopo la Parigi-Nizza. “Da piccolo portaborracce a grande rivelazione... portatore di speranze”. scrisse il Kicker. Durante un’uscita in allenamento Jaksche cadde e si ruppe il gomito. E pochi giorni prima della partenza del Tour de France cadde una seconda volta. Mentre Armstrong in Francia trionfava nuovamente davanti ad Ullrich, Jaksche si preparava per le classiche di fine estate. Cadde nuovamente e questa volta si ruppe la spalla. Alla fine del 2004 Riis ebbe difficoltà finanziarie con la sua squadra ed era pronto a lasciare andare Jaksche. Il vecchio direttore sportivo di Jaksche alla Once, Saiz, aveva trovato un nuovo sponsor nell’assicurazione Liberty Seguros e fece a Jaksche una proposta economica annuale di 500.000 euro. Alla nuova squadra apparteneva anche un famoso dottore: Eufemiano Fuentes, allora quarantanovenne, fino al 2003 medico della squadra spagnola Kelme.

    SPIEGEL: Ha mai parlato concretamente con Saiz di doping?

    JAKSCHE: No, era sottinteso, una sorta di “noi sappiamo come vanno le cose”. Non ha mai fatto il nome di Fuentes, diceva solo che mi avrebbe chiamato un dottore. Io conoscevo Fuentes di fama. Mi chiamò poco dopo San Silvestro, faceva freddo, ero con amici in montagna. Andai fuori, nella neve, poichè non volevo che qualcuno ascoltasse la conversazione. Fuentes disse: pronto, sono Eufemiano. Mi propose di andare a Gran Canaria, dove viveva. E io ci andai.

    SPIEGEL: Quando?

    JAKSCHE: A metà di gennaio 2005. Fuentes mi venne a prendere all’aeroporto con la sua Toyota. Arrivammo velocemente al dunque e prendemmo in considerazione l’intero programma. Inizialmente mi parlò di anabolizzanti ma io non volevo, poiché fanno venire muscoli enormi che ti ostacolano nelle tappe in montagna. Allora parlammo di emoglobina artificiale, roba congelata dalla Russia, ma per me era troppo pericoloso. Così arrivammo all’Epo, ma io non volevo a causa dei controlli in allenamento. Mi disse che aveva un mezzo per occultare il doping da epo, che mi avrebbe dato più tardi in piccola dose pillole da sciogliere nell’urina da testare. Fuentes ha sciorinato quasi tutto il suo catalogo e mi ha chiesto quale rischio volevo correre. Con rischio intendeva il rischio di essere scoperti, non il rischio per la salute. Così arrivammo all’autoemotrasfusione. Il metodo era completamente nuovo per me ma ne parlava come se fosse la cosa più semplice…

    SPIEGEL: Che tipo è Fuentes?

    JAKSCHE: Viene da una famiglia stimata di Gran Canaria e non dà alcun valore all’Autorità. Fuentes è uno di quei medici sportivi che si rallegrano quando i loro corridori sono davanti, perché considera questo come un proprio trionfo. Fuentes non aveva alcuna esperienza negativa, non era mai stato coinvolto in casi clamorosi. Il suo traffico lo svolgeva in un appartamento in Calle Caidos de la Division Azul. Non è proprio un macellaio spagnolo: ha qualcosa di geniale in sè, anche quando a volte esagera. È uno che passa col rosso al semaforo, per vedere cosa succede.

    SPIEGEL: Più tardi lei ebbe anche un contatto privato con lui?

    JAKSCHE: Sì. Una volta gli avevo raccontato che mio papà è oculista. Fuentes ha una figlia piccola, alla quale poco dopo la nascita venne diagnosticato una specie di cancro agli occhi. Mi ha chiesto se potevo aiutarlo. Dato che le mancava un globo oculare, il cranio della ragazza era cresciuto in maniera asimmetrica. Mi ha dato documenti medici e foto della sua bambina che io ho portato a mio padre. Lui ha contatti con primari in Monaco e Munster ai quali ha spedito i documenti.

    SPIEGEL: Fuentes le ha tolto subito il sangue al primo incontro?

    JAKSCHE: Sì, nella mia camera in hotel Funzionava come una donazione di sangue. Mi sono sdraiato su un divano, lui ha inserito la cannula e dopo una buona mezz’ora mezzo litro era stato prelevato.

  3. io alle cronosquadre metto i più forti a tirare di più mentre i più scarsi di meno e fino ad ora mi è andata bene ma penso

    che dipenda pure dalla forma dei corridori se stanno bene anche dei pipponi possono fare il miracolo come mi è successo

    nella cronosquadre del Giro d'Italia chiusa davanti ai più quotati Saxobank e team Columbia :smilie_daumenpos:

  4. anche da me di luca ha vinto sul m.petrano per circa 50'', ma io avevo un po' più di distacco da lui...

    comunque ti consiglio di scrivere per colonne quendo appunto le frasi sono tagliate da una foto (sulle ultime 3-4 righe, dove c'è la foto di pellizzotti che arriva, per intenderci)

    ho capito,comunque prima o poi Di Luca mollerà per sfinimento nè sono certo :smilie_daumenpos:

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