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[Story PCM 2011] Alaska: "Nelle terre di nessuno"


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Grazie ragazzi, ora si riprende...

12 Luglio 1997

yukf.jpg

L'estate è la stagione migliore per visitare "le terre di nessuno".

Partimmo con una fresca brezza e l'alba a pochi minuti di cammino; zaini in spalla salutammo Fairbanks e salimmo sul primo pullman diretto per Tanacross, primo puntino sulla cartina del nostro viaggio verso l'ignoto.

L'obiettivo era mirare decisi a sud per giungere nello Juneu, ad un tiro di schioppo dal Canada, per poi risalire e proseguire verso ovest, verso Anchorage prima e Ekwok, Talananuk e Alakanuk poi, per incontrare quel che restava degli Inuit.

Quindi mirare decisi verso il cuore pulsante del paese, seguendo lo "Yukon River", il grande e impetuoso fiume, facendo tappa in tutti i piccoli paesi attraversati dal letto d'acqua, fino a Fort Yukon. Avremmo poi puntato verso nord, verso ciò che non c'è: sconfinate distese di ghiaccio da affrontare con l'incertezza di non tornare indietro, intrappolati nella morsa del freddo.

Non sapevamo prima di partire quanto sarebbe durato il nostro viaggio, sapevamo invece che affrontarlo in un periodo piuttosto che in un altro sarebbe stata la linea di demarcazione tra la vita e la morte.

Durante il viaggio io e Tom continuavamo a discutere incessantemente sul da farsi, ma in maniera poco convinta, entrambi infatti odiavamo le restrizioni, i viaggi organizzati e gli obblighi. Decidemmo di lasciarci guidare dall'intuito, di affidare le carte pescate dal mazzo al destino, sperando fosse la migliore mano di poker possibile...

Il destino qualche giorno dopo ci regalò un inaspettato, quanto piacevole incontro nel bel mezzo della verdissima foresta americana. Saranno state le 19 e tre quarti, il cielo sopra le nostre teste mollava acqua a secchiate, oscurandosi preoccupantemente e lasciandoci all'addiaccio per qualche ore, almeno fino a quando non incontrammo colui che, in seguito, ci sarebbe stato accanto, oltre che per quella notte, per il resto della nostra vita.

Jeff Pistol era un ragazzo quanto noi quando lo incontrammo a pochi passi dal suo rifugio nel bel mezzo della vegetazione; vestiva una camicia a quadrettoni, un paio di pantaloni marroni con scarpe da montagna ed un cappello da cowboy a raccogliere i lunghi capelli biondi, ma ciò che colpiva ad occhio era la cicatrice sul lato sinistro del volto. Uno sfregio di dieci centimetri almeno causatogli da un orso durante una battuta di caccia col padre, il quale riuscì a salvare il figlio scacciando l'animale.

Jeff era un cacciatore, sulle orme del padre, e durante quella notte ci offrì riparo nel suo accogliente rifugio, dinanzi ad un fuoco acceso, con della carne alla brace pronta per venire azzannata dai nostri denti feroci e affamatati come non mai.

Era emigrato in Alaska dal Canada all'età di 7 anni, dopo che il padre, stancatosi della vita di città, decise di abbandonare il lavoro a Vancouver per dedicarsi alla natura; uno di quei cacciatori rispettosi e sempre attenti a salvaguardare l'equilibrio del sistema.

All'inizio l'ecologista Tom si scontrò molto con Jeff, ma ben presto capì che le loro visioni erano quanto mai simili, così il cacciatore decise di accompagnarci verso est l'indomani.

Non si sarebbe più separato da noi per tutto il corso del viaggio...

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FLASHBACK: Anno 2022, qualche istante prima, sempre su quella zattera.

zattera.gif

La paura è una intensa emozione derivata dalla percezione di un pericolo; ed io in questo preciso istante di paura non ne ho più, solo rassegnazione, nessun timore.

La mia vita scivola come questa zattera sull'acqua, calma prima di ingrossarsi in prossimità delle rapide, pronte a trascinarmi in basso, stavolta per sempre. Non ho più voglia di lottare...

E si che un tempo ne avevo eccome, mi viene in mente quella tappa di alta montagna al Tour de France, io a giocarmela con i migliori, con Contador, Basso, Gesink, Schleck; io che fino a qualche anno prima utilizzavo la bicicletta soltanto per spostarmi di qualche chilometro al massimo, mai avevo pensato in vita mia di diventare un ciclista professionista, per di più seguito da coloro che si affidarono a me, durante il lungo viaggio all'interno della mia Alaska, quasi come fossi un Dio.

Avevo si paura da atleta, paura di non farcela, di non essere all'altezza, di cadere e rovinarmi la vita, di finire nella trappola del doping, di non essere capito.

Se sono qui, su questa dannata zattera, inerme come una mosca senza ali, è anche colpa del ciclismo, che tanto mi ha dato e molto mi ha tolto...

Fine Luglio 1997

Arrivammo nello Juneu dopo qualche giorno, favoriti dal passaggio di un gentile canadese diretto al confine con il proprio camion di benzina.

Il suo nome era Carter Frazer, giovane aitante, muscoloso con i capelli corti e una grande fede in Dio, tale da portarlo a riempire l'abitacolo del camion di rosari e croci.

Carter era tatuato come pochi, non aveva di certo l'aria da bravo ragazzo, ma era solo un impressione, che si smascherava dopo aver parlato per qualche minuto con lui; ragazzo buono di cuore, pronto sempre a porgere la mano in segno di aiuto.

Lo fece anche con noi, quando un'altra tempesta ci sorprese, cogliendoci impreparati: Carter si offrì di accompagnarci, dandoci riparo nel maestoso Track, senza mai chiedere nulla in cambio.

Qualche giorno di vantaggio sulla tabella di marcia ci sarebbe servito per affrontare con maggior serenità i problemi che si sarebbero presentati con l'avanzare della stagione.

Sconfinammo in Canada per un giorno soltanto, sufficiente per conoscere tale Gregor De Rea, uno dei clienti di Frazer e probabilmente la persona più stravagante che conobbi nel corso della mia vita.

Gregor aveva una cresta sul capo, di colore castano, quasi rossiccia; portava sempre al polso un orologio fermo da tre anni oramai, mentre la sua divisa da benzinaio era alquanto particolare, infatti era solito mettere i pantaloni nei calzettoni, quasi sempre di color grigio, soltanto per scaramanzia. Qualche anno prima infatti, svegliatosi di soprassalto e messosi i calzettoni in questa particolare maniera gli accadde un fatto destinato a cambiargli la vita: un anziano di nome Wesley MaCstill, qualche giorno prima di morire gli consigliò di re-inventarsi sul mercato, svelandogli un possibile metodo di vendita petrolifera che poi mise in atto. De Rea, su consiglio dell'anziano, diede vita al primo "porta a porta del petrolio", inventando la vendita di gasolio e benzina direttamente a casa. In realtà questo non gli diede dei reali vantaggi, ma Gregor a distanza d'anni ancora crede orgoglioso di aver cambiato il corso delle cose, sentendosi un vero e proprio innovatore; pur essendo considerato da tutti un povero illuso.

Anche per questo mi piacque sin da subito, aveva la giusta dose di schizofrenia che aveva unito saldamente me e Tom durante i primi anni del liceo, sentii subito che Gregor poteva essere ben più che un semplice benzinaio, la sua estrosità avrebbe potuto portarci lontano.

Gregor era, pur nella sua porzione di pazzia, uomo d'onore, pertanto si mise in affari con il nipote dell'anziano Wesley, tale Pat...Pat MaCstill. Strana storia anche quella di Pat, canadese fino all'osso, ma convertitosi all'islam a 19 anni, quando si sposò con una giovane ragazza pachistana: Jamirah.

downsf.jpg

Pat era stato, fino ai 18 anni, un funambolo del downhill, tanto dall'essere definito dagli addetti ai lavori come una futura star; purtroppo il suo carattere chiuso non gli fece compiere il grande salto, così rimase con un pugno di mosche in mano e senza un impiego fisso. Decise di ritirarsi sulle montagne vicine, vivendo da eremita assieme alla sua Jamirah, mantenendo una quota importante della "De Rea Petrol", potendo così trascorrere i giorni a pescare, tagliare legna, leggere il Corano e continuando a dedicarsi alla sua grande passione, la bicicletta; sempre a tutta tra i sentieri canadesi...

Strana coppia conoscemmo in quel fine luglio: uno schizofrenico benzinaio ed un eremita ex promessa del downhill convertito all'Islam.

Capiì subiro che in quel lungo viaggio non ci sarebbe stato davvero niente di normale o scontato...

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Dieci mesi dopo

inuit.jpg

Quasi un anno dopo giungemmo a Ekwok, piccolo agglomerato di case popolato dagli indigeni "Inuit", dopo un lungo periodo trascorso in sella a delle mountainbike prestateci dall'amico Pat MaCstill, che però non ci seguì nel nostro viaggio. Lui e Gregor si offrirono però di sponsorizzare la nostra spedizione, rifiutammo ogni tipo di aiuto economico, ma accettammo di buon grado il prestito delle biciclette, sapendo che ci avrebbero fatto comodo, almeno fino a quando non ci saremmo esposti alle correnti gelide del nord.

Salutammo gli amici canadesi commossi, promettendo loro che saremmo tornati per riportare le mountainbike si, ma soprattutto per raccontare ogni particolare del nostro viaggio.

Un viaggio che continuava a regalarci emozioni immense, come quando ci addentrammo nella cultura di questi Inuit, conoscendo usi, costumi, persino la lingua, o meglio qualche parola del loro indecifrabile linguaggio.

Prak Nanuk, padre di Kinai, divenne nostro grande amico, ci spiegò tutto, ma proprio tutto dell'Alaska, rapendo le nostre menti sognanti ogni notte, quando ci fermavamo fino a tardi dinanzi al fuoco acceso ad ascoltare i racconti di un uomo vissuto. Prak aveva solo 34 anni quando lo incontrammo, mentre il figlio Kinai era soltanto un bambino, rapito quanto noi dalle parole del padre.

In realtà nemmeno noi potevamo considerarci grandi, dal basso dei nostri diciassette anni nemmeno compiuti: Kinai era solo più giovane di noi, dotato di una grande intelligenza e spirito di sacrificio. Ogni mattina infatti si alzava alle cinque per andare a comprare il pane, quindi andava a scuola in bicicletta o a piedi a seconda del periodo dell'anno, per poi tornare a casa ad aiutare il padre nelle faccende di casa, considerato che la madre se n'era andata sposandosi un ricco canadese conosciuto anni prima.

Restai senza parole quando, qualche mese dopo, Prak decise di partire con noi e il figlio verso il nord, nelle terre inospitali, estreme...nelle terre di nessuno...

La sua esperienza ci avrebbe aiutato probabilmente a superare i momenti difficili della spedizione; lui e Kinai parevano marinai esperti in mezzo al mare in tempesta, nulla sembrava disturbare la nostra corsa verso nord.

Incontrammo ogni tipo di condizione sfavorevole, ma giungemmo, l'anno successivo, a Barrow, la mia casa...

Mi guardai attorno e vidi il solito ammasso di baracche, il buio attorno come sempre, a rendere il tutto ancora più inospitale. Trovai i miei genitori invecchiati: la lontananza da un figlio, seppur complessato e difficile come lo ero io, logora dentro e fuori, tant'è che è difficile nasconderlo.

Li abbracciai, ci guardammo per un attimo e loro capirono di non potermi trattenere; non ci parlammo nemmeno, i nostri occhi si fecero intendere.

Ritornammo verso il cuore dell'Alaska, in direzione Anchorage...

Quando arrivammo al momento dei saluti Prak si fermò, mise la propria mano sulla testa del figlio e gli disse in lingua inuit:

"Kinai...ho atteso questo momento a lungo, il mio unico e amato figlio è pronto; pronto a partire e cercare fortuna. Non è l'età che fa di un bambino un uomo, ma il suo spirito forte, da guerriero: tu sei un uomo ora, loro saranno i tuoi compagni di viaggio. Torna da me quando sarò vecchio e stanco, perchè così in questi anni avrai il ricordo di tuo padre nel pieno delle forze, mandami una lettera una volta all'anno, pensami sempre...e cerca quella fortuna che io, restando qui non ho avuto.

Come me cerca di essere un uomo d'onore, dal cuore buono e di non dimenticare la tua terra, pensa semmai ad allargare i tuoi orizzonti, a non limitarti come noi qui a Ekwok.

Buona fortuna figlio mio..."

Kinai abbracciò il padre e partì con noi, aggregandosi a me, Tom e Carter: ancora non capivo quale fosse la meta, lo scopo: ben presto lo avrei scoperto.

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Un anno dopo

Ci volle un altro lungo anno per ritornare verso Fairbanks, dopo aver attraversato montagne, laghi, pianure e foreste, città...vedemmo quanto c'era da vedere senza perderne ogni minima essenza presente nell'atmosfera.

Stanchi, stremati ma soddisfatti: al termine del viaggio calcolammo di aver percorso circa 1200 miglia di cammino e oltre 3000 in bicicletta. Eravamo ALLENATI! Pronti a tutto, forgiati dal gelo, dalla fatica quotidiano e dal "nulla ti è dovuto, devi conquistartelo".

I giorni successivi al nostro ritorno "alla base" ci accorsimo di non essere più in grado di rimanercene con le mani in tasca (a dire il vero non lo eravamo mai stati). Io, Tom, Kinai, Jeff e Carter continuavamo a ricercare l'avventura, la fatica...Pedalavamo, correvamo ogni santissimo giorno, quasi fossimo ormai dalle macchine programmate per soffrire al fine ultimo di provare piacere.

Con gli amici Gregor e Pat ci sentivamo ogni settimana, gli raccontavamo quanto ci stava accadendo, ci stavamo drogando di sport, accorgendoci di quanto i nostri limiti si stavano sempre più spostando verso l'alto.

Gregor, che folle era ma scemo no e un pizzico di senso del business l'aveva per davvero, si sbilanciò. Per sei mesi non si fecero sentire nè lui nè Pat (MaCstill), fino a quando non si presentarono un bel giorno a Fairbanks, poco prima della nostra partenza verso le Falkland con questo fax accettato dall'UCI...

alaskanpresentation.png

Tutti illustri sconosciuti, eccetto uno...quel Vladimir Karpets voluto in squadra per motivi burocratici con la Russia (la storia dell'Alaska parla anche sovietico), il quale però, eterna promessa mai sbocciata si sarebbe messo a completa disposizione della squadra. Oltre ai russi anche qualche canadese e tanti americani, noi Alaskiani eravamo si un miscuglio di popoli ma ci imposimo di rimanere uniti nel corso degli anni...

Avevamo ancora sei mesi prima di cominciare...

ma...

intanto...

ero un ciclista professionista...

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